LA GUERRA NON È PARTE DELLA NATURA UMANA
“Le condizioni di partenza che rendono più probabile la guerra includono il passaggio a un’esistenza più sedentaria, una popolazione locale in crescita, una concentrazione di risorse preziose come il bestiame, l’aumento della complessità sociale e della gerarchia, il commercio di beni di valore elevato e l’istituzione di confini di gruppo e identità collettive.”
La nostra traduzione dell’articolo di R. Brian Ferguson, pubblicato su Scientific American nel settembre 2018.
IN BREVE
• La guerra è innata nella specie umana o è emersa dopo che l’organizzazione delle società è diventata sempre più complessa?
• Gli studiosi si dividono in due fazioni che potrebbero essere etichettate come falchi e colombe.
• Uno sguardo ravvicinato alle prove archeologiche e di altro genere suggerisce che l’omicidio collettivo è il risultato di condizioni culturali sorte negli ultimi 12.000 anni.
Le persone, o forse solo i maschi, si sono evolute con una predisposizione a uccidere membri di altri gruppi? Escludendo l’evidente capacità di uccidere, la domanda è: Esiste un’innata propensione ad armarsi ed esercitare violenza collettiva? La parola “collettiva” è la chiave. Le persone combattono e uccidono per motivi personali, ma l’omicidio non è una guerra. La guerra è sociale, con gruppi organizzati per uccidere persone di altri gruppi. Oggi la controversia sulle radici storiche della guerra ruota intorno a due posizioni speculari. In una, la guerra è una propensione frutto di un’evoluzione per eliminare qualsiasi potenziale concorrente. In questo scenario, gli umani, sin dai tempi dei nostri antenati comuni con gli scimpanzé, hanno sempre fatto la guerra. L’altra posizione sostiene che il conflitto armato è emerso solo negli ultimi millenni, poiché le mutevoli condizioni sociali hanno fornito la motivazione e l’organizzazione per uccidere collettivamente. Le due parti si dividono in ciò che il defunto antropologo Keith Otterbein chiamava falchi e colombe. (Questo dibattito si collega anche alla questione se le tendenze istintive e bellicose possano essere rilevate negli scimpanzé.)
Se la guerra esprime una tendenza innata, allora dovremmo aspettarci di trovare prove di guerra nelle società su piccola scala in tutta la documentazione inerente la preistoria. I falchi affermano che abbiamo effettivamente trovato prove del genere. “Quando c’è un buon quadro archeologico di qualsiasi società sulla Terra, c’è quasi sempre anche evidenza di guerra… Una stima prudente delle morti dovute alla guerra si aggira attorno al 25%”, ha scritto l’archeologo Steven A. LeBlanc e la sua co-autrice Katherine E. Register. Con numeri di tale portata, sostengono gli psicologi evolutivi, la guerra è servita come un meccanismo di selezione naturale in cui il più forte prevale nell’acquisire sia i compagni che le risorse.
Questa prospettiva ha raggiunto un’ampia influenza. Lo scienziato politico Francis Fukuyama ha scritto che le radici delle recenti guerre e del genocidio risalgono a decine o centinaia di migliaia di anni fa tra i nostri antenati cacciatori-raccoglitori, persino al nostro antenato condiviso con gli scimpanzé. Bradley Thayer, uno dei principali studiosi di relazioni internazionali, sostiene che la teoria evolutiva spiega perché la tendenza istintiva a proteggere la propria tribù si sia trasformata nel tempo in inclinazioni collettive verso la xenofobia e l’etnocentrismo nelle relazioni internazionali. Se le guerre sono manifestazioni naturali di odio istintivo, perché cercare altre risposte? Se la natura umana tende a uccidere collettivamente gli estranei, per quanto tempo possiamo evitarlo?
Gli antropologi e gli archeologi della fazione della colomba contestano questa visione. Gli umani, sostengono, hanno un’ovvia capacità di impegnarsi in una guerra, ma i loro cervelli non sono cablati per identificare e uccidere estranei coinvolti in conflitti collettivi. Attacchi di gruppo letali, secondo le loro argomentazioni, emersero solo quando le società di cacciatori-raccoglitori crebbero in dimensioni e complessità e in seguito alla nascita dell’agricoltura. L’archeologia, integrata dalle osservazioni delle culture contemporanee di cacciatori-raccoglitori, ci permette di identificare i tempi e, in una certa misura, le circostanze sociali che hanno portato alle origini e all’intensificazione della guerra.
QUANDO È INIZIATO TUTTO?
Nella ricerca delle origini della guerra, gli archeologi cercano quattro tipi di prove. La prima prova da considerare sono i graffiti nelle grotte. Le pitture rupestri paleolitiche di Grottes de Cougnac, Pech Merle e Cosquer in Francia risalenti a circa 25.000 anni fa mostrano ciò che alcuni studiosi interpretano come lance che penetrano persone, suggerendo che la guerra esisteva già nel tardo Paleolitico. Ma questa interpretazione è contestata. Altri scienziati sottolineano che alcune delle figure incomplete in quelle pitture rupestri hanno la coda, e sostengono che le linee piegate o ondulate che si intersecano con esse più probabilmente rappresentano forze del potere sciamanico, non lance. (Al contrario, i dipinti murali sulla penisola iberica orientale, probabilmente realizzati da agricoltori insediati migliaia di anni dopo, mostrano chiaramente battaglie ed esecuzioni.)
Anche il ritrovamento di armi è una prova dell’esistenza della guerra, ma questi artefatti potrebbero non essere ciò che sembrano. Io stesso consideravo le mazze come una prova della guerra, finché non ho imparato di più sulle penisola iberica del Vicino Oriente. La maggior parte ha alloggi per manici così stretti che non avrebbero potuto resistere a un colpo in battaglia. Le mazze, simboleggiando anche autorità e regole stabilite, possono risolvere un conflitto senza ricorrere alla guerra. D’altra parte, è perfettamente possibile andare in guerra senza armi tradizionali: nel sud della Germania intorno al 5000 a.C., gli abitanti dei villaggi furono massacrati con le asce che erano anche usate per lavorare il legno.
Al di là di arte e armi, gli archeologi cercano indizi anche nei resti degli insediamenti. Le persone che temono un attacco di solito prendono precauzioni. Nella documentazione archeologica, a volte vediamo persone che prima vivevano in case sparse in pianura, spostarsi a vivere in villaggi con nuclei difendibili. I villaggi in tutta l’Europa neolitica erano circondati da recinti rinforzati. Ma non tutti questi recinti sembrano progettati per la difesa. Alcuni potevano semplicemente servire a delimitare gruppi sociali distinti.
I resti scheletrici sembrano reperti ideali per determinare quando è iniziata la guerra, ma anche questi richiedono un’attenta valutazione. Ad esempio, non tutte le ferite causate da un’arma lasciano un segno sull’osso. Punte sagomate fatte di pietra o di ossa sepolte con un cadavere possono essere sia cerimoniali che causa della morte. Le ferite su un singolo cadavere sepolto potrebbero essere il risultato di un incidente, un’esecuzione o un omicidio. In effetti, l’omicidio può essere stato abbastanza comune nel mondo preistorico, ma l’omicidio non è una guerra. E non tutti i combattimenti erano letali. In alcuni siti di sepoltura, gli archeologi hanno trovato più spesso teschi con depressioni craniche guarite, rispetto a ferite simili che hanno invece causato la morte. I risultati suggeriscono lotte con clave o altre risoluzioni non letali di controversie personali, come è comune nella documentazione etnografica. Quando i teschi provengono per lo più da femmine, le fratture possono riflettere episodi di violenza domestica.
L’evidenza archeologica globale, quindi, è spesso ambigua e difficile da interpretare. Spesso indizi diversi sono messi insieme per arrivare a far sorgere il sospetto dell’esistenza della guerra. Ma un lavoro archeologico scrupoloso – con scavi multipli e con un buon recupero di materiali – dovrebbe bastare da solo a far sorgere quel sospetto.
A conti fatti, però, ci sono davvero indicazioni che gli umani abbiano fatto la guerra per l’intera storia della specie? Se il tuo campione è costituito da casi noti per le alte frequenze di ferite perimortem (quelle che si verificano in corrispondenza o in prossimità del momento del decesso), la situazione sembra piuttosto complicata. È così che si arriva a quel 25% delle morti per violenza. I fraintendimenti nascono da una selezione faziosa dei dati da parte dei media popolari. Qualsiasi scoperta di antiche uccisioni fa notizia. I media ignorano invece gli innumerevoli scavi in cui non si trovano segni di violenza. Se invece facciamo un’analisi completa della documentazione archeologica di una particolare area e in un dato periodo di tempo per vedere se troviamo o meno indizi di guerra, si dipinge un quadro completamente diverso. Difficilmente si può asserire che la guerra sia stata ovunque e che sia esistita da sempre. La guerra ha avuto un inizio.
LE PRIME OSTILITÀ
Molti archeologi azzardano l’ipotesi che la guerra sia emersa in alcune zone durante il periodo Mesolitico, successivo all’ultima era glaciale terminata intorno al 9700 a.C., quando i cacciatori-raccoglitori europei si insediarono e svilupparono società più complesse. Ma è difficile stabilirlo. La guerra è apparsa in tempi diversi e in luoghi diversi. Per mezzo secolo gli archeologi hanno concordato sul fatto che le molteplici morti violente a Jebel Sahaba lungo il Nilo nel Sudan settentrionale si sono verificate ancora prima, intorno al 12.000 a.C. Una forte competizione tra gruppi di cacciatori-raccoglitori in una zona con risorse alimentari una volta ricche ma ora in declino, potrebbe aver portato al conflitto.
Il ritrovamento di insediamenti, armi e sepolture nel nord del Tigri suggeriscono che poco dopo, tra il 9750 e il 8750 a.C., ci sia stata una guerra che coinvolse villaggi insediati di cacciatori-raccoglitori. Nelle vicinanze, le prime fortificazioni di villaggi conosciute avvenivano tra gli agricoltori nel settimo millennio, e la prima conquista di un centro urbano ebbe luogo tra il 3800 e il 3500 a.C. A quella data, la guerra era comune in tutta l’Anatolia, diffusa in parte dalla conquista di migranti dal Tigri settentrionale.
In netto contrasto, gli archeologi non hanno trovato prove convincenti negli insediamenti, nelle armi o nei resti scheletrici nel Levante meridionale (dal Sinai al sud del Libano e in Siria) risalenti a prima del 3200 a.C. In Giappone, dal 13.000 all’800 a.C., tra i gruppi di cacciatori-raccoglitori le morti violente sono rare. Con lo sviluppo delle risaie umide intorno al 300 a.C., i decessi violenti sono diventati evidenti in più di un reperto su 10. In siti nordamericani ben studiati, alcuni traumi scheletrici molto precoci sembrano il risultato di conflitti personali piuttosto che collettivi. Un sito in Florida conteneva prove di uccisioni multiple risalenti circa al 5400 a.C. In alcune parti del Pacifico nord-occidentale lo stesso accadde nel 2200 a.C., ma nelle Grandi Pianure meridionali fu registrata solo una morte violenta prima del 500 d.C.
PERCHÉ È SUCCESSO?
Le condizioni di partenza che rendono più probabile la guerra includono il passaggio a un’esistenza più sedentaria, una popolazione locale in crescita, una concentrazione di risorse preziose come il bestiame, l’aumento della complessità sociale e della gerarchia, il commercio di beni di valore elevato e l’istituzione di confini di gruppo e identità collettive. Queste condizioni sono talvolta associate a gravi cambiamenti ambientali. La guerra a Jebel Sahaba, per esempio, potrebbe essere stata una risposta a una crisi ecologica, in quanto il Nilo tagliò una gola eliminando le paludi produttive, portando infine all’abbandono umano dell’area. Più tardi, secoli dopo l’inizio dell’agricoltura, l’Europa neolitica, per fare un esempio, dimostrò che quando le persone hanno più motivi per combattere, le loro società iniziano a organizzarsi in modo tale da renderle più preparate e motivate ad abbracciare la guerra.
Ci sono tuttavia dei limiti a ciò che l’archeologia può mostrare, e dobbiamo cercare risposte altrove. L’etnografia, lo studio di diverse culture, sia viventi che passate, illustra queste pre-condizioni. Una distinzione fondamentale è quella tra comunità di cacciatori-raccoglitori “semplici” e “complesse”.
La semplice caccia e raccolta caratterizza le società umane durante la maggior parte dell’esistenza del genere umano risalente a oltre 200.000 anni fa. In generale, questi gruppi cooperano tra di loro e vivono in piccoli gruppi, nomadi ed egualitari, sfruttando vaste aree con bassa densità di popolazione e pochi possedimenti.
I cacciatori-raccoglitori “complessi”, al contrario, vivono in insediamenti fissi con popolazioni a centinaia. Mantengono le classificazioni sociali di gruppi di parentele e individui, restringono l’accesso alle risorse alimentari da linee di discendenza e hanno una leadership politica più sviluppata. Segni di tale complessità sociale apparvero per la prima volta durante il Mesolitico. La comparsa di cacciatori-raccoglitori complessi può talvolta, ma non sempre, segnare una fase di transizione all’agricoltura, la base per lo sviluppo degli stati politici. Questi gruppi, inoltre, ricorrevano spesso alla guerra.
Le condizioni preliminari per la guerra sono solo una parte della storia tuttavia, e da sole, potrebbero non essere sufficienti per spiegare l’esplosione di conflitti collettivi. Nel Southern Levant, ad esempio, quelle precondizioni sono esistite per migliaia di anni senza prove di guerre avvenute.
Perché, però, c’era un’assenza di conflitto? Si scopre che molte società hanno anche precisi presupposti per la pace. Molte disposizioni sociali impediscono la guerra, come i legami incrociati di parentela e matrimonio; cooperazione nella caccia, nell’agricoltura o nella condivisione del cibo; flessibilità negli accordi sociali che consentono alle persone di trasferirsi in altri gruppi; norme che valorizzano la pace e stigmatizzano le uccisioni; e mezzi funzionali alla risoluzione dei conflitti. Questi meccanismi non eliminano i conflitti seri, ma li incanalano in modi che impediscono di uccidere e di tenere limitato il numero di individui coinvolti.
Se è così, perché abbiamo scoperte archeologiche e resoconti di esploratori e antropologi, così pieni di guerre mortali? Nel corso dei millenni, le pre-condizioni della guerra divennero più comuni in più luoghi. Una volta stabilita, la guerra tende a diffondersi, con i popoli violenti che sostituiscono quelli meno violenti. Gli stati si sono evoluti in tutto il mondo e questi sono in grado di militarizzare i popoli alle loro periferie e sulle rotte commerciali. Gli sconvolgimenti ambientali come le frequenti siccità aggravano e talvolta generano condizioni che portano alla guerra, e la pace potrebbe non tornare quando le condizioni si attenuano. Particolarmente degna di nota fu l’intensificazione del periodo medievale caldo, da circa il 950 al 1250, e la sua rapida trasformazione nella Piccola era glaciale che iniziò intorno al 1300. In quel periodo la guerra aumentò nelle aree delle Americhe, nel Pacifico e altrove. Nella maggior parte del mondo, la guerra era da tempo consolidata, ma i conflitti peggiorarono con un numero crescente di vittime conteggiate.
Poi è arrivata l’espansione globale europea, che ha trasformato, intensificato e talvolta generato la guerra indigena in tutto il mondo. Questi scontri non erano solo guidati dalla conquista e dalla resistenza. I popoli locali iniziarono a fare guerra gli uni con gli altri, trascinati in nuove ostilità dalle potenze coloniali e dai beni e servizi da esse forniti.
L’interazione tra gli antichi e i recenti stati in espansione e i conflitti che ne derivarono, incoraggiò la formazione di identità e divisioni tribali distintive. Le aree ancora al di fuori del controllo coloniale subirono cambiamenti imposti dagli effetti a lunga distanza del commercio, dalle malattie e dagli sfollamenti della popolazione, il che portò a guerre. Gli stati hanno anche scatenato il conflitto tra le popolazioni locali, imponendo istituzioni politiche con confini chiari piuttosto che identità amorfe locali e autorità limitate incontrate spesso nelle loro incursioni coloniali.
Gli studiosi spesso cercano sostegno per avallare l’idea che la volontà umana di impegnarsi in una guerra precedette la nascita dello stato, cercando prove di ostilità in “zone tribali”, dove la guerra “selvaggia” sembra endemica ed è spesso vista come un’espressione naturale. Ma un attento esame della violenza etnograficamente conosciuta tra le popolazioni locali nei documenti storici, fornisce una prospettiva alternativa.
Il caso dei cacciatori-raccoglitori dell’Alaska nordoccidentale dal tardo XVIII al XIX secolo dimostra l’errore di proiettare l’etnografia dei popoli contemporanei sul lontano passato dell’umanità. Nei dettagliati racconti della tradizione orale, perdura l’idea di massacri che coinvolgevano villaggi vicini. Questa violenza mortale è citata come prova di guerra da parte dei cacciatori-raccoglitori prima dell’ascesa degli stati in espansione.
L’archeologia, tuttavia, combinata con la storia della regione, fornisce una valutazione molto diversa. Non ci sono tracce di guerra nei primi resti archeologici nelle culture semplici dei cacciatori-raccoglitori dell’Alaska. I primi segni di guerra compaiono tra il 400 e il 700 d.C. e sono probabilmente il risultato del contatto con gli immigrati dall’Asia o dall’Alaska meridionale, dove la guerra era già in auge. Ma questi conflitti erano probabilmente di dimensioni e intensità limitate.
Con le condizioni climatiche favorevoli del 1200 d.C., si sviluppò una crescente complessità sociale tra questi cacciatori di balene, con popolazioni più dense e stabili e lo sviluppo di un commercio a lunga distanza. Dopo un paio di secoli, la guerra divenne comune. La guerra nel diciannovesimo secolo, tuttavia, fu molto peggio, così grave da causare il declino della popolazione locale. Questi successivi conflitti – quelli che compaiono nelle storie orali – sono stati associati all’espansione dello stato che si concretizzava in una massiccia rete commerciale sviluppata anche con punti di stoccaggio nei porti russi in Siberia, e hanno portato ad un’estrema territorialità e centralizzazione di complessi gruppi tribali attraverso lo Stretto di Bering.
NON È UNA QUESTIONE DI VITA
Il dibattito sulla guerra e sulla natura umana non sarà risolto in tempi brevi. L’idea che la violenza intensiva ad alto tasso di vittime sia onnipresente in tutta la preistoria ha molti sostenitori. Ha una risonanza culturale per coloro che sono sicuri che noi, come specie, tendiamo verso la guerra. Come direbbe mia madre: “Basta guardare alla storia!” Ma le colombe hanno la meglio quando vengono prese in considerazione tutte le prove. In generale i primi ritrovamenti forniscono poche prove sul fatto che la guerra fosse comune.
La gente è la gente. Combatte e talvolta uccide. Gli umani hanno sempre avuto la capacità di fare la guerra, se le condizioni e la cultura lo impongono. Ma quelle condizioni e le culture guerresche che generano, divennero comuni solo negli ultimi 10.000 anni e, nella maggior parte dei casi, molto più recentemente. L’alto livello di uccisioni spesso riportato nella storia, nell’etnografia o in seguito nell’archeologia è contraddetto dai primi reperti archeologici in tutto il mondo. Le ossa e i manufatti più antichi sono coerenti con il titolo dell’articolo di Margaret Mead del 1940: “La guerra è solo un’invenzione, non una necessità biologica”.
E I NOSTRI CUGINI SCIMPANZÉ?
Gli antropologi stanno valutando se i primati più vicini a noi mostrano una propensione istintiva verso l’omicidio di gruppo.
Affrontare la questione della predisposizione umana alla guerra spesso implica guardare oltre la nostra specie per esaminare le esperienze dei nostri parenti scimpanzé. Questo è un argomento che ho studiato per molti anni e sul quale sto finendo di scrivere un libro << Scimpanzé, “Guerra” e Storia>>. Metto le virgolette sulla “guerra” perché il conflitto tra gli scimpanzé, sebbene a volte collettivo e mortale, manca delle dimensioni sociali e cognitive essenziali per essere assimilabile alla guerra umana.
La guerra umana coinvolge avversari spesso appartenenti a più gruppi locali che possono essere unificati da forme di organizzazione politica molto diverse fra loro. La guerra è favorita da sistemi culturalmente specifici di conoscenze e valori, che generano significati potenti di “noi contro loro”. Questi costrutti sociali non hanno analogie tra gli altri primati. Nonostante queste distinzioni, alcuni scienziati hanno sostenuto che gli scimpanzé dimostrano una propensione innata ad uccidere estranei, ereditata dall’ultimo antenato comune tra scimpanzé ed esseri umani – un impulso questo, che ancora subliminalmente, spingerebbe anche gli umani in conflitti mortali contro quelli al di fuori delle loro comunità.
Il mio lavoro contesta l’affermazione che i maschi degli scimpanzé hanno una tendenza innata a uccidere gli estranei, sostenendo invece che la loro violenza più estrema può essere legata a circostanze specifiche che risultano dalla rottura delle loro vite attraverso il contatto con gli umani. Dichiaro questo dopo aver analizzato ogni uccisione di scimpanzé segnalata. Da questa analisi emerge un quadro chiarissimo. L’esame critico di una recente raccolta di uccisioni da 18 siti di ricerca sugli scimpanzé – insieme pari a 426 anni di osservazioni sul campo – rivela che di 27 uccisioni di adulti e adolescenti intergruppi osservati o dedotti, 15 provengono da due sole situazioni altamente conflittuali, che si sono verificate rispettivamente in due siti tra il 1974-1977 e tra il 2002-2006.
Le due situazioni ammontano a nove anni totali di osservazione, calcolando un tasso di uccisione di 1,67 individui all’anno per quegli anni. I restanti 417 anni di osservazione presentano in media solo un tasso di uccisione di 0,03 individui all’anno. La domanda è se i casi precedenti siano meglio spiegabili come comportamento evolutivo, adattivo o come risultato di interferenza umana. E mentre alcuni biologi evolutivi teorizzano che questi delitti siano spiegabili come tentativi di diminuire il numero di maschi in gruppi concorrenti, gli stessi dati mostrano al contrario che sottraendo al numero di uccisioni di maschi esterni al gruppo le uccisioni di maschi interni, la riduzione dei maschi esterni è solo di un individuo ogni 47 anni, cioè meno di un individuo nel periodo calcolato sulla vita media di uno scimpanzé.
Da studi comparati, concludo che la “guerra” tra gli scimpanzé non è una strategia evolutiva ma una risposta indotta dall’interferenza umana. Le analisi caso per caso mostrano che gli scimpanzé, come specie, non sono “scimmie assassine”. Questa ricerca mette in dubbio anche l’idea che qualsiasi tendenza umana verso la bellicosità potrebbe essere guidata da un’antica eredità genetica di un lontano antenato comune di scimpanzé e umani.
Leave us a comment