IL SILENZIO DELLE PANTOFOLE
“Peggio del rumore degli stivali, è il silenzio delle pantofole.”
Oggi, nelle varie forme di attivismo per la liberazione, alcuni rami stanno prendendo una piega molto netta e a nostro avviso assolutamente controproducente, se non pericolosa. Ma andiamo con ordine.
Uno dei meccanismi più efficaci del potere è quello di avere il sostegno delle masse.
Questo si ottiene in maniera diversa in base all’ambito specifico su cui si esercita quel potere, ma in generale una delle armi più efficaci è la deresponsabilizzazione.
Alcune forme di deresponsabilizzazione sono “dirette”, come quella del voto, nel senso che il meccanismo messo in piedi per fingere di dare voce alle cittadine e ai cittadini funge esso stesso da elemento deresponsabilizzante: attraverso la delega io non mi occupo più di ragionare o fare qualcosa su problemi e scelte di carattere sociale o politico ma mi limito a scegliere chi lo farà al posto mio. Grazie a questa delega poi gruppi di potere possono agire fingendo di farlo in nome del popolo.
Altre forme sono “indirette” ovvero sono gli stessi meccanismi pratici del sistema che generano collateralmente e autonomamente la deresponsabilizzazione, separando le azioni che compiamo dalle loro conseguenze. Ristabilire la connessione causa-effetto può essere difficile anche quando si viene a conoscenza delle conseguenze delle proprie azioni. Ad esempio comprando un prodotto io potrei finanziare un’azienda che investe in armi o causa disastri ambientali dall’altra parte del mondo. Questi orrori esistono e possono essere perpetrati grazie a quel finanziamento. Per ricollegarmi alla conseguenza delle mie azioni e porvi rimedio io dovrei prima di tutto venire a conoscenza di che cosa stia facendo quell’azienda con i miei soldi, ricollegare il mio acquisto agli orrori perpetrati dall’azienda (cosa che non avviene in automatico semplicemente venendone a conoscenza, ma occorre una elaborazione più profonda) e poi combattere l’abitudine ad usare quel prodotto e cosa questo rappresenta per me nel mio quotidiano.
Altre forme di deresponsabilizzazione sono un ibrido o una somma delle due. Ad esempio se vedo il disegno di una mucca felice su una confezione di latte subisco un tentativo di deresponsabilizzazione diretta perché vengo indotto a credere che le mucche sfruttate per quel latte siano in realtà felicemente e amorevolmente accudite; mentre il semplice fatto che la confezione di latte sia comodamente disponibile nello scaffale del supermercato sotto casa non mi permette (né tantomeno mi spinge) ad essere cosciente di tutto l’orrore e le sofferenze che sono serviti per produrla centinaia di chilometri più in là.
I più grandi orrori su questo pianeta non accadono perché c’è un manipolo di cattivi che vogliono perpetrarli ma perché c’è una massa che li sostiene ideologicamente, finanziariamente o semplicemente anche solo ignorandoli. Questo avviene appunto perché l’individuo è deresponsabilizzato direttamente e/o indirettamente. Quindi possiamo dire che la deresponsabilizzazione delle masse è uno degli elementi, se non il principale elemento, che sta alla base del potere costituito per compiere indisturbato le sue azioni nefaste. Anzi, di fatto, il potere e le sue azioni sono costituiti dall’insieme di scelte e comportamenti quotidiani compiuti da tutti noi.
Tornando alle lotte di liberazione, ad esempio nell’ambito antispecista, l’idea alla base di alcuni attivisti è quella di agire direttamente contro aziende e stato, individuati come i principali responsabili o addirittura unici attori di quello che gli animali stanno subendo.
Al di là di diversi elementi che condividiamo pienamente come il rifiuto di delegare allo stato una soluzione, il contestare la trasformazione capitalistica e mercantilista del veganismo o di non credere a politiche dei piccoli passi e welfaristiche (gabbie più grandi, uccisioni più “umane”, ecc.), l’approccio diretto verso stato e aziende basato su quell’impianto filosofico ha degli effetti su cui bisogna ragionare profondamente, perché se si sbagliano le idee alla base di un movimento o di un insieme di azioni programmate le ripercussioni socio-politiche non possono che essere nefaste.
In principio il motivo alla base della scelta di questi rami antispecisti di puntare il dito e attuare azioni dirette contro lo stato e le aziende (che perpetrano materialmente lo specismo, il primo con leggi, le seconde con i coltelli) era che “sensibilizzare le masse non basta/funziona più”. Qui abbiamo già un piccolo problema: si parte dal presupposto che la sensibilizzazione delle masse sia stata perseguita in maniera massiva, da molto tempo, in maniera corretta e che chiaramente non stia bastando/funzionando. Tutti elementi assolutamente non dimostrati, anzi, diremmo opposti ai fatti. L’antispecismo, rispetto ad altre forme di cambiamento sociale è assolutamente giovane, non ha moltissimi militanti che cercano di divulgarlo e, quando è stato divulgato, spesso è stato fatto in maniera facilmente attaccabile e disinnescabile. Quindi a nostro avviso scartare o sminuire l’importanza della sensibilizzazione per questi motivi non ha alcun senso ed è frutto di un’analisi non lucida e superficiale.
Questa posizione di indifferenza verso le masse è andata poi estremizzandosi fino al punto che si è affermato che gli autori del sistema oppressivo animale sono solo aziende e stato, NON certo i consumatori. Quindi la causa principale dell’oppressione e sfruttamento degli animali sarebbero le azioni delle aziende e dello stato. Riassumendo si è passati dallo scegliere di agire contro aziende e stati per motivi di efficacia rispetto ad altre forme di attivismo, all’agire contro questi perché ritenuti gli unici autori dell’oppressione, la causa principale dello specismo, l’ago della bilancia della questione animale. In tutto questo, le masse non solo non devono essere coinvolte ma addirittura non vengono considerate i veri mandanti, diminuendo drasticamente la loro diretta e fattuale responsabilità e quindi nutrendo la loro “innocenza”.
Questa lettura della situazione non fa altro che alimentare proprio la deresponsabilizzazione dei consumatori e quindi delle masse, facendo un favore enorme proprio al potere che esercita l’oppressione e che grazie a quella deresponsabilizzazione può continuare ad agire. In questo senso, quindi, l’approccio descritto ha un effetto reazionario.
Non solo, puntare il dito contro aziende e stati può aumentare drasticamente il rischio di cadere nella trappola ideologica del welfarismo, perché concentrarsi sulla responsabilità di quelle entità lasciando intatto lo specismo nella mente delle masse darà un enorme assist ad aziende e stato che potranno attuare politiche welfaristiche mostrando una faccia compassionevole alle moltitudini che continueranno ad essere illuse che “ci si sta occupando degli animali” e rendendo ai loro occhi le azioni dirette sempre meno comprensibili, condannabili e quindi allontanandoli dalla comprensione dell’antispecismo, figuriamoci della militanza (paradossalmente una delle “lamentele” più ripetute da questi attivisti è proprio quella di essere in troppo pochi… sic!).
Basterebbe vedere come coloro che sostengono questo tipo di approccio descrivano le loro azioni per comprendere quanto sia fallace il ragionamento alla base: occupare un macello per poche ore viene chiamato “disobbedienza civile” (no, è un sabotaggio che determina danni di poco conto alle aziende), “liberazione animale” (nessun animale viene liberato, anzi, alcuni sono obbligati a sostare più a lungo nei camion con temperature rigide o altissime e verranno semplicemente macellati altrove o più tardi), “battersi per l’emancipazione di una classe sociale” (no, rimane un sabotaggio e gli animali non sono una classe sociale: questa considerazione dello stato degli animali è tremendamente antropocentrica e forzatamente ideologica oltre che fuorviante visto che non possono essere applicati gli stessi approcci e strategie rispetto ad altre “vere” lotte di classe che sono drasticamente differenti in termini di premesse, dinamiche e conseguenze), “azione di co-resistenza” (l’idea è quella di lottare al “fianco degli animali” più che “per gli animali”, sottolineando la forte connessione che si ha nel trovarsi nei luoghi della loro sofferenza, nell’essere trattati esattamente come loro quando si viene spostati, strattonati e derisi dalle forze dell’ordine… peccato che questa esperienza, per quanto profonda e genuina possa essere, sia praticamente inutile per gli animali se fatta da chi già è antispecista e in teoria è diventato o diventata tale proprio perché ha già capito certe dinamiche. Al contrario sarebbe molto più utile che questa connessione la facesse chi non ha compreso o non è a conoscenza della sofferenza animale, ma per far accadere questo servirebbe altro), “atto dimostrativo” (per dimostrare qualcosa occorre un interlocutore, ma se si afferma che è inutile sensibilizzare le masse, per chi è questa dimostrazione? Per la polizia? Per le aziende che hanno milioni di clienti o per lo stato che ha milioni di elettori? Per discuterne nei tribunali e sperare che il dibattito porti a una “negoziazione legislativa” da imporre alle masse? o perché passando dalle corti il messaggio antispecista diventerebbe magicamente più forte o più autorevole?… viene da temere quindi che siamo davanti un movimento senza interlocutori).
Appare evidente che la lettura di queste azioni sia molto romanzata e cerchi di fare leva sulle emozioni degli attivisti e delle attiviste, non sui fatti, non a caso si fa riferimento anche a parole come “eroismo”. Sarebbe molto grave se tutto questo non fosse frutto di una lettura errata ma di una voluta e mera propaganda che, anche se probabilmente per un giusto fine, rimane comunque ingannevole e strumentalizza la sofferenza e la morte degli animali.
Il tutto si basa anche su una visione distorta e caricaturale della sensibilizzazione delle masse, fatta passare esclusivamente come un elemosinare da chi consuma prodotti animali un loro cambio di dieta perché passino al veg. Una visione del tutto strumentale per far apparire le azioni dirette come unico baluardo di vera lotta politica con annessa fanfara emozionale di cui sopra.
La realtà è che la sensibilizzazione delle masse è una vera arma di lotta politica inclusiva volta a far emergere negli interlocutori i principi alla base dell’antispecismo in maniera spontanea e non conflittuale (in modo che questi principi siano riconosciuti in maniera autentica e profonda, cosa che con metodi accusatori e colpevolizzanti è estremamente difficile che accada). Quindi non stiamo parlando di mera richiesta di veganizzazione: si tratta invece di far esplodere dal basso e dalle singole coscienze tutte le istanze libertarie che facciano escludere alla radice ideologie di dominio che POI si tradurranno in comportamenti che avranno le positive conseguenze sociali di cui abbiamo bisogno. Le modalità per fare questo sono pressoché infinite e sarebbe ridicolo persino iniziare una lista.
Eppure, sappiamo bene che chi è antispecista lo è perché qualcuno o qualcuna ha impiegato tempo ed energie per fargli comprendere le nostre istanze, mentre quanti e quante le hanno comprese perché hanno saputo di sabotaggi, hanno letto di vandalismi, hanno visto vetrine rotte o gli è arrivata una secchiata di sangue finto addosso?
In ultimo, disinteressarsi delle masse significa perdere in partenza e per dimostrarlo basta un ragionamento molto semplice. Nessuno dice che sensibilizzare le masse sia un obiettivo semplice e veloce da perseguire, anzi, ma semplicità e velocità sono elementi secondari all’efficacia di una strategia, soprattutto se non ne esistono di più efficaci.
Analizziamo i possibili scenari di due approcci messi a confronto nel caso abbiano successo o meno:
SCENARIO 1: Sensibilizzare le masse affinché si formi una coscienza di massa antispecista.
INSUCCESSO: La situazione rimane identica a quella attuale.
SUCCESSO: Si forma una coscienza di massa antispecista, gli animali vengono visti come individui, non c’è più alcuna richiesta di prodotti animali, le aziende che li producono chiudono e/o si riconvertono, gli stati di certo non si mettono a legiferare per rendere obbligatorio l’uso di derivati animali, non occorre andare ad aprire alcuna gabbia perché le gabbie semplicemente non esistono più tanto nella testa delle persone quanto nella realtà.
SCENARIO 2: Attuare azioni dirette contro stato e aziende.
INSUCCESSO: La situazione rimane identica ma in più aumenta la deresponsabilizzazione del consumatore e si presta il fianco a strumentalizzazioni e accuse da parte del potere che portano indietro il dibattito di anni e anni, sempre più persone vengono allontanate dalle istanze antispeciste.
SUCCESSO: (Anche se è impossibile che una minoranza forzi globalmente aziende e stati a determinate azioni, facciamo finta che succeda). Il risultato sarebbe la chiusura forzata di aziende (per troppi danni subiti o per la paura di subire sabotaggi) e il varo di leggi antispeciste (perché i politici sono obbligati da ricatti o dalla paura). Tutto questo mentre la massa rimarrebbe specista, il che significa che nel giro di poco tempo, siccome le leggi e le aziende, come tutto quello che abbiamo attorno, è il risultato del pensiero e delle azioni della massa, torneranno ad esserci leggi e aziende speciste. Quindi lo scenario del successo di questa strategia è comunque un fallimento a lungo termine a meno che non si creda in una specie di totalitarismo antispecista in un mondo specista, ovvero un sistema di (op)pressione buono da parte di una minoranza che combatta costantemente con aziende e stati perché non ci sia oppressione animale (attraverso continui sabotaggi e intimidazioni) mentre miliardi di persone vorrebbero quella oppressione.
In sintesi, agire direttamente contro stati e aziende, sia che si parli di antispecismo o anarchia, temiamo sia un approccio fallimentare e suicida, che non vada alla radice del problema, che corrobori una visione falsata e fallace del processo di causa-effetto di ciò che si vuole combattere e per questo abbia in sé elementi pericolosamente reazionari.
Il rischio è anche quello di trovarsi impantanati in un antispecismo senza più interlocutori, autoreferenziale, che non è più in grado di giudicare strategie e azioni da intraprendere in base all’utilità pratica e alla capacità di sensibilizzazione delle masse, ma che le giudica in base all’impatto emotivo che coinvolge gli stessi attivisti e attiviste. Un qualcosa che servirà sempre di più alle persone impegnate in quell’attivismo e sempre meno agli animali, un movimento che rischia di lasciare in quei mattatoi non solo gli animali ma anche le istanze antispeciste mentre fuori continua a tirare indisturbato il vento dello specismo.
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