SFRUTTAMENTO ANIMALE, CAPITALISMO E FAME NEL MONDO
È sorprendente che sfruttamento animale e capitalismo siano considerati ancora due cose distinte e separate, sorprendente che non ci si accorga che l’uso degli animali non umani per qualunque tipo di fine umano non è altro che il sottoprodotto e la base stessa del sistema capitalista. Lo stesso termine “capitalismo”, viene da caput “capo di bestiame”, a ricordare che tutte le oppressioni sono costruite su quella degli animali, a partire dalla domesticazione degli animali “da reddito”, iniziata circa 10.000 anni fa con l’avvento della civiltà.
Ma è soprattutto nel secolo scorso e dal dopoguerra in poi che la bistecca può essere considerata il simbolo del capitalismo per antonomasia, atta e adatta a veicolare il mito del benessere e della prosperità. È in quel preciso momento che la carne diventa in qualche modo il cibo del capitalismo. Pure in Italia la si può considerare così. Non a caso uno dei principali imprenditori ed industriali italiani è Luigi Cremonini, colui che ha creato, a partire dagli anni ‘60, un impero attraverso la vendita di carne di vacca in tutto il mondo e che è stato definito in una puntata di Report del 2005 il “re della bistecca”, “la vera espressione del miracolo industriale italiano del dopoguerra”, “l’icona della mobilità e del riscatto sociale”. La carne diventa così inevitabilmente il simbolo del boom economico e del capitalismo che si è instaurato nel dopoguerra.
Non dimentichiamo anche come Henry Ford abbia tratto ispirazione dai nastri convogliatori dell’inferno dei macelli di Chicago per ideare la catena di montaggio da applicare alla produzione di automobili.
Nell’articolo “Il trionfo della macellazione” il filosofo svizzero Nicola Emery scrive: “Vi è anche un legame strettissimo, un intreccio, una sovrapposizione d’identità, fra la macellazione meccanica, sviluppata dall’industria della carne, ed i moderni sistemi di produzione di massa. Da un lato le linee di smontaggio o più propriamente linee di squartamento (dissembly lines) del vivente animale, dall’altro le linee di montaggio delle grandi fabbriche automobilistiche. Da un lato i macelli della Armour di Chicago, dove si poteva seguire “il maiale dal porcile alla salsiccia” (M. Weber), dall’altro gli impianti della Fmc di Detroit, dove già nel 1913 un’intera vettura poteva venir assemblata in due minuti e mezzo. Sono le due facce inseparabili della produzione a flusso continuo, caratterizzante l’epoca fordista. Espressioni, una sanguinante, l’altra sempre più priva di macchie d’olio – ma non certo di morti bianche – dell’accelerazione del ciclo del vivente in nome dell’aumento della produttività.”
Se non si riesce a capire la connessione tra massacro animale e capitalismo è sufficiente ricordare anche le parole di Max Horkheimer quando scrive senza mezzi termini che il grattacielo capitalista dello sfruttamento umano è fondato sullo sfruttamento animale e che le sue fondamenta sono costituite dal macello:
“Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai malati.
Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo. Larghi territori dei Balcani sono una camera di tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali. Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato.”
In relazione invece alla popolazione mondiale e alla fame nel mondo, secondo le più recenti stime, aggiornate a luglio 2015, l’Onu prevede che nell’anno 2030 sul nostro pianeta ci saranno circa 8,5 miliardi di abitanti. Successivamente si stima che la popolazione continuerà a crescere raggiungendo 9,7 miliardi nel 2050. La Fao ha come obiettivo, entro il 2025, l’eradicazione della fame, assicurando il giusto accesso alle risorse alimentari per la popolazione del futuro. Mentre si discute ancora sulle modalità di una equa redistribuzione delle risorse alimentari, i dati parlano abbastanza chiaro: sulla Terra 1 persona su 7 soffre la fame e 1 milione e mezzo di bambini muore ogni anni per denutrizione. Sempre secondo la FAO il sistema degli allevamenti intensivi utilizza il 30% delle terre emerse ed il 33% dei terreni arabili presenti su questo pianeta è destinato alla produzione di mangimi per gli allevamenti intensivi. Le foreste vengono spazzate vie per creare nuovi pascoli e la zootecnia rappresenta la principale causa della deforestazione, specialmente in America Latina dove, ad esempio, circa il 70% delle foreste dell’Amazzonia è stato trasformato in pascolo.
Esiste anche uno sbilancio energetico dovuto al fatto che gli animali impiegano molte più calorie (ricavate dai vegetali) di quante ne producano sotto forma di carne, latte e uova: come “macchine” che convertono calorie vegetali in calorie animali sono in pratica del tutto inefficienti. Il rapporto di conversione da mangimi a cibo per gli umani varia a seconda della specie, ma è in media molto alto, 1:15. Significa che servono circa 15 kg di mangime per produrre soltanto 1 kg di carne.
Per quanto riguarda gli aspetti puramente tecnici, non siamo dunque nel campo delle opinioni personali ma è un fatto oggettivo che per produrre cibo si devono ovviamente usare delle risorse: acqua, energia e terreno fertile. E si emettono inquinanti, come per qualsiasi attività produttiva: sostanze chimiche (usate come fertilizzanti o diserbanti) che finiscono nelle acque e nell’aria, e gas serra. Quando si producono alimenti di origine animale (carne, pesce, latte e derivati, uova) si consumano necessariamente molte più risorse rispetto a produrre cibi vegetali, il che significa che si riesce a produrre molto meno cibo animale a parità di risorse.
Il problema della fame nel mondo è in pratica un problema di risorse. Non perché queste manchino ma a causa della loro pessima distribuzione. Partiamo da un dato incontestabile: se guardiamo il rapporto fra risorse impiegate e resa in termini di produzione di cibo, l’allevamento non è minimamente paragonabile all’agricoltura. Non esiste nessun tipo di animale che possa produrre la stessa quantità di cibo che potremmo ottenere, impiegando le stesse risorse, con l’agricoltura. Questo a causa di un meccanismo molto semplice ed inefficiente: per produrre cibo da fonti animali, dobbiamo investire enormi quantità di cibo di origine vegetale. Impieghiamo mesi o anni per far crescere gli animali nei nostri allevamenti e per fare questo dobbiamo investire enormi quantità di mangimi. Questi mangimi, ovviamente, devono venire coltivati da qualche parte nella Terra.
Jeremy Rifkin, presidente della Fondazione sui Trend Economici di Washington, DC, afferma: “Ci sono popoli che soffrono la fame perché gran parte della terra arabile viene utilizzata per coltivare vegetali che diventano mangime per animali invece che cibo per gli uomini”. Riporta poi l’esempio della carestia del 1984 in Etiopia che è stata causata dall’industria della carne: “mentre la gente moriva di fame, l’Etiopia produceva semi di lino, di cotone, di colza destinati agli allevamenti europei. Milioni di ettari di terreno nei paesi in via di sviluppo sono usati a questo scopo. Tragicamente, l’80% dei bambini affamati vivono in paesi che paradossalmente dispongono di eccedenze alimentari che vengono però usate per nutrire animali destinati al consumo nei paesi ricchi.”
L’USDA (Dipartimento di Stato per l’Agricoltura degli Stati Uniti) e le Nazioni Unite dichiarano che utilizzare un ettaro di terra per allevare bovini produce circa 22 kg di proteine. Se invece lo si coltivasse a soia, lo stesso ettaro renderebbe 403 kg di proteine. La zootecnia inoltre spreca preziose risorse idriche. I biologi Paul e Anne Ehrlich fanno notare che per coltivare 1 kg di frumento servono 200 litri d’acqua, mentre 1 kg di carne richiede dai 20.000 ai 40.000 litri. Facendo un semplice esempio, per produrre un hamburger impieghiamo l’equivalente di due mesi di docce nel nostro appartamento.
Ecco un altro modo di guardare al problema. Un terreno di 4 ettari può “dare da mangiare” a 60 persone se viene coltivano a soia, a 24 se coltivato a frumento, a 10 se a granturco e solo a 2 se utilizzato per l’allevamento del bestiame. Negli USA, riducendo anche solo del 10% la produzione di carne si avrebbe cibo vegetale per sfamare 60 milioni di persone: così stima il nutrizionista Jean Mayer. Sessanta milioni di persone sono la popolazione della Gran Bretagna, una nazione, che, detto per inciso, potrebbe sfamare 250 milioni di persone con un’alimentazione completamente vegetale.
La situazione è al limite del paradossale: produciamo cibo per circa 16 miliardi di persone, eppure più di un settimo della popolazione mondiale soffre di fame e di sete. Come è possibile tutto questo? Semplice: se noi vogliamo continuare a mangiare carne, con queste quantità ed a questi ritmi produttivi, serve che qualcun altro nel mondo non lo faccia o che, peggio ancora, serve che qualcun altro nel mondo non abbia accesso alle risorse di cui avrebbe bisogno.
La triste verità è che più carne mangiamo noi, meno possibilità di mangiare avranno le persone meno abbienti del pianeta.
Martín Caparrós, giornalista e scrittore argentino, ha riassunto bene il concetto dicendo: “Una persona che mangia carne si appropria mediamente di risorse che, suddivise, basterebbero per cinque o dieci persone. Mangiare carne significa stabilire una disuguaglianza molto marcata: io sono quello che si permette di mangiare un cibo cinque, dieci volte più costoso rispetto a quello che mangiate voi.”
In questo scenario abbiamo due possibilità: voltare il nostro sguardo da un’altra parte e fingere di non sapere nulla di tutto questo, oppure decidere di prendere parte quotidianamente al cambiamento con un’azione semplice ed immediata: eliminare completamente i prodotti di origine animale dalla nostra alimentazione. Così facendo non combatteremo solo l’iniquità della distribuzione delle risorse alimentari, ma anche le indicibili sofferenze inflitte agli animali negli allevamenti intensivi ed i danni che questo sistema di produzione del cibo provoca al nostro pianeta.
Foto “The volture and the little girl”, Kevin Carter, premio Pulitzer 1993.
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