Perché la resistenza civile funziona

“Why Civil Resistance Works” (Perché la resistenza civile funziona) è uno studio del 2011 a opera delle ricercatrici Erica Chenoweth e Maria J. Stephan, le quali hanno analizzato un’ampia varietà di fonti relative a 323 campagne politiche violente e nonviolente avvenute tra il 1900 e 2006 per valutare la loro effettiva efficacia.

Riportiamo la nostra traduzione delle conclusioni di questo studio:
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“In questo testo abbiamo portato alla luce diversi punti.

Primo, abbiamo sostenuto che storicamente le campagne di resistenza nonviolenta hanno avuto più successo nel conseguire i propri obiettivi rispetto alle campagne di resistenza violente. Questo si verifica persino in circostanze in cui la maggior parte delle persone si aspetterebbe che la resistenza nonviolenta fosse inutile, comprese quelle situazioni in cui il dissenso è di norma contrastato con una violenta repressione di regime. L’unica eccezione è rappresentata dalle campagne di secessione che storicamente si sono rivelate inefficaci, a prescindere dalla loro caratteristica violenta o nonviolenta, argomento sul quale molti ricercatori hanno abbondantemente scritto.

Secondo, abbiamo sostenuto che il successo storico delle campagne nonviolente è spiegato dal fatto che gli impedimenti fisici, morali e di informazione alla partecipazione in queste campagne sono, a parità di condizioni, sostanzialmente minori rispetto a quelli delle campagne violente. Minori sono gli impedimenti alla partecipazione, più alto sarà il grado di coinvolgimento diversificato nelle campagne nonviolente, il che è un fattore fondamentale nello spiegare i risultati delle campagne di resistenza. Risultati che sono raggruppabili in cinque chiavi di lettura.

Primo, le masse. La partecipazione diversificata tende a generare un più alto livello di disobbedienza attraverso la non-cooperazione di massa, che porta anche i principali sostenitori del regime (incluse le forze dell’ordine) a riconsiderare la loro posizione e valutare la loro fedeltà alla resistenza. Alla fine della giornata la maggior parte della gente vuole sopravvivere ed essere dalla parte vincente del conflitto, perciò una contestazione nonviolenta incrementa l’incentivo a un cambio di paradigma.

Secondo, la repressione di regime rispetto a campagne nonviolente di grandi dimensioni è molto probabile che alla fine si riveli un boomerang contro l’oppressore, questo è molto meno probabile che accada se la repressione è usata contro grandi campagne violente. Questo boomerang (i cui effetti sono amplificati per ragioni descritte precedentemente) spesso aumenta la mobilitazione in favore della protesta, nonché cambiamenti di paradigma tra chi supporta le elites e sanzioni a danno dei regimi oppressori.

Terzo, le campagne che vedono una partecipazione civile su larga scala hanno molta più probabilità, rispetto alle piccole campagne, di ottenere un importante supporto per le loro cause da parte della comunità internazionale e di recare una perdita di supporto al regime contestato da parte dei poteri locali e internazionali.

Quarto, le grandi campagne nonviolente tendono a essere più efficaci nel non essere colpite e rimanere resilienti dall’oppressione di regime.

Quinto, le grandi campagne nonviolente tendono a essere più adatte allo sviluppo di innovazioni tattiche rispetto alle piccole campagne, questo permette loro di adattarsi più facilmente alle varie condizioni esterne.

Ciò nonostante, abbiamo mostrato che il solo fatto che la campagna sia nonviolenta non garantisce il suo successo. Le campagne non hanno successo semplicemente perché vincono sul piano morale (come molti suggeriscono), piuttosto ciò che è veramente cruciale per il suo successo è la capacità della campagna di fare aggiustamenti strategici rispetto alle condizioni che cambiano, a prescindere che sia una campagna violenta o nonviolenta. Ma è molto difficile prevedere o fare generalizzazioni su quale campagna sarà strategicamente valida prima che siano visibili i primi frutti. Considerato che l’abilità strategica non è osservabile all’inizio di una campagna, siamo statisticamente portati a sottovalutarne l’importanza.
Ad ogni modo, l’importanza dell’abilità di stare al passo con le mosse dell’avversario appare ovvia a chiunque abbia studiato strategia.

Ciò che possiamo dire comunque è che sembrano mancare evidenze sul fatto che esistano tipi di avversari contro i quali questo tipo di manovre strategiche sono impossibili. Contrariamente ai teorici che enfatizzano fattori strutturali nel determinare se un conflitto avrà o meno successo, noi non troviamo alcuno schema.
Le campagne nonviolente hanno successo contro democrazie e non democrazie, avversari potenti e deboli, regimi repressivi e concilianti. Pertanto le condizioni formano (ma non predeterminano) la capacità di una resistenza nonviolenta di adattarsi e ottenere vantaggio persino sotto le più atroci circostanze.

Mentre non stiamo suggerendo che la resistenza nonviolenta possa sempre aver successo contro un avversario che persegua un genocidio (cosa spesso sostenuta da chi dubita dell’efficacia della resistenza civile in queste circostanze), vorremmo suggerire che altri fattori rispetto alla volontà dell’avversario di usare la forza bruta, come l’abilità di ottenere vantaggi e resilienza nei confronti dell’avversario, sono altrettanto importanti nel determinare il risultato di un conflitto.
I regimi che commettono genocidio sono potenti tanto quanto gli scagnozzi e i subalterni che rispondono ai loro ordini (Summy 1994).

Ricerche statistiche e di continuità su quattro casi studio supportano il fatto che le campagne nonviolente siano superiori nell’infliggere costi considerevoli agli avversari, in modi che portano a separare il regime dalle sue colonne portanti. Viceversa le campagne violente tendono a unificare il regime, rinforzare i suoi pilastri e causano il raddoppiamento della violenza contro gli insorti, (persino legittimamente agli occhi di molti spettatori).
Perciò più del 75% delle insurrezioni violente finisce o soppressa dall’avversario statale o in una situazione di stallo che si protrae nel tempo, mentre la maggioranza delle campagne nonviolente alla fine ha successo.

Sebbene le campagne violente a volte abbiano successo, spesso è grazie alla presenza di un supporto esterno che le aiuta a dimostrare credibilità a potenziali alleati, nonché ad aumentare risorse materiali contro l’avversario e scampare alle autorità attraverso degli asili stranieri. Metà delle insurrezioni violente che hanno avuto successo hanno ricevuto evidente supporto da sponsor statali che hanno a volte integrato il deficit di adesione.

In paesi in cui le insurrezioni violente sono state vincenti osserviamo comunque che in queste nazioni è molto più rara la nascita di una democrazia pacifica dopo la fine del conflitto. Dall’altro lato, in paesi simili dove campagne nonviolente di massa sono avvenute, osserviamo un maggiore tasso di democrazie post conflitto e un tasso di ricadute verso la guerra civile molto più basso. Una transizione nonviolenta di successo non garantisce che in seguito ci sia l’assenza di un aspro dibattito politico o una degradazione della democrazia, ma è molto più probabile che il dibattito politico avvenga attraverso canali nonviolenti.

Qualcuno potrebbe citare la rivoluzione americana contro l’Inghilterra come un controesempio di ciò che abbiamo appena asserito, bisogna ricordare però che l’insurrezione armata contro le forze britanniche palesemente avvenuta attraverso guerriglia, fu parallelamente preceduta da un decennio di creazione di istituzioni, boicottaggi nonviolenti, disobbedienza civile, non-cooperazione e altri metodi di riforma.

Il nostro studio perciò conclude che la resistenza civile nonviolenta funziona, sia in termini di ottenimento di obbiettivi strategici sia in termini di promozione di benessere a lungo termine delle società in cui le campagne si verificano. L’insurrezione violenta, d’altro canto, ha un triste record su entrambi i fronti.”

Fonte: Why Civil Resistance Works

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