L’Anarco-primitivismo

La maggior parte delle critiche mosse all’anarco-primitivismo sono assolutamente prive di fondamento perché si contrappongono a tesi che quella corrente non ha mai realmente proposto, prova che molti la stanno contestando senza aver approfondito il tema, basandosi su preconcetti, o osteggiandola per puro puntiglio (o forse per un recondito timore di rapportarsi poi alle radicali conclusioni cui si giunge). Conoscendo le vere basi e le vere tematiche poste in essere dall’anarco-primitivismo nessuna di quelle critiche sarebbe mai nata.
Ma questa sorta di opposizione insensata non è cosa nuova, anzi. L’anarco-primitivismo affonda le sue radici nel 1700 sulla scia delle acute riflessioni di Russeau e più tardi di Thoreau, fino ad arrivare alla corrente anarco-naturista a cavallo tra fine 1800 e inizio 1900. Già a quel tempo troviamo documenti e articoli che tentano di sbrogliare alcuni degli equivoci di cui parlavamo poco sopra.

Ad esempio sulla Rivista Anarchica Le Flambeau n°1 del 1901, fu pubblicato un articolo a firma di Henri Zisly, filosofo anarchico individualista e naturista, in cui all’inizio delinea il pensiero naturista criticando la civiltà di quel tempo e le già evidenti storture tecnologiche (all’epoca collegate al vapore e alle macchine, oggi al petrolio e al digitale) auspicando una riflessione sui danni che tutto il pianeta subisce (essere umano compreso) ad opera della civilizzazione, ponendo in contrasto a tutto ciò una visione della natura come ambiente ideale per l’essere umano. Nell’articolo Zisly si preoccupa poi di dissipare il dubbio alimentato da uno dei tanti luoghi comuni che già all’epoca pesavano sulla visione naturista, cioè l’accusa di voler tornare a uno stato primitivo.
Tracciando un confine ben definito tra “stato primitivo” e “ritorno alla natura” Zisly spiega quello che si auspicavano i naturisti e poi i primitivisti ovvero un ritorno allo stato naturale, non a uno stato primitivo.

Il ritorno allo stato naturale è la liberazione dei cicli naturali e delle componenti della natura (fiumi, boschi, foreste, mari, ecc.) dal giogo dell’antropizzazione. In queste condizioni il pianeta sosterrebbe tutto il vivente con i suoi frutti, con la sua abbondanza, spegnendo alla radice qualsiasi disuguaglianza e sofferenza legata alla civilizzazione, creando un ambiente in cui anche l’essere umano perfettamente integratovi possa appagare i propri bisogni fisici, emotivi e intellettuali in bilanciata correlazione con gli sforzi sostenuti per soddisfarli.

Il concetto espresso in questo articolo di più di cento anni fa è tremendamente simile al moderno “rewilding”, corrente che sta diventando sempre più famosa nell’ambito dell’ecologismo radicale ma che vede tra le sue fila sostenitori che contestano paradossalmente il primitivismo, di nuovo senza averne capito i veri principi su cui si basa.
Molti simpatizzanti del rewilding spesso si limitano ad interessarsi al “ritorno al selvaggio” solo di particolari porzioni di territorio, spesso considerano un rewilding solo parziale dell’essere umano, limitando quindi la critica alla civilizzazione o addirittura non considerandola affatto, come se lo stato non-selvaggio del pianeta non dipendesse in realtà proprio dallo stato non-selvaggio dell’essere umano.

Anche uno dei massimi esponenti della attuale corrente anarco-primitivista, John Zerzan, più volte ha spiegato che il primitivismo non è una sterile adorazione o una volontà di imitazione dell’uomo paleolitico, ma si tratta di uno strumento di analisi del nostro passato come specie tra le specie al fine di capirne i punti di forza e gli errori per usarli come faro per una società diversa e migliore. Il primitivismo è uno strumento di analisi talmente valido da essersi fuso non solo con il pensiero anarchico, rivelandone definitivamente la radice antropologica e naturale, ma fondendosi anche con la genetica, l’antropologia e l’archeologia accademiche che sempre più spesso ci stanno fornendo un’immagine dell’essere umano del passato completamente diversa rispetto ai luoghi comuni nati in seno alla civiltà e volti alla sua auto-consacrazione.

Pare assurdo quindi che dopo più di cento anni l’anarco-primitivismo debba ancora fare i conti con detrattori (persino tra anarchici, ecologisti radicali e altri attivisti-filosofi antispecisti) che lo attaccano su punti che nemmeno esistono.

La dottoressa antropologa Layla AbdelRahim in questa brillante intervista del 2017 conferma quanto sopra abbiamo analizzato e aggiunge altri importanti dettagli sull’anarco-primitivismo che ci possono essere utili per eliminare altri luoghi comuni. Buona lettura.
Deviance Project

“L’anarco-primitivismo è, non vorrei dire una struttura, ma una metodologia e una prospettiva con la quale si osservano i dati disponibili sulla vita, come questa vita sia possibile, come la vita sia fattibile nel nostro pianeta e da dove viene la sofferenza. Consiste, fondamentalmente, di tutti gli aspetti delle forze o dei gruppi che hanno storicamente combattuto contro l’oppressione, contro la civiltà, contro le diverse forme di auto-organizzazione umana che impongono guerra, violenza e spoliazione. Questi gruppi sono sempre stati interessati, ovviamente, ai temi della libertà, inquadrandoli in modi diversi, di egualitarismo o di giustizia. E così si ha una varietà di movimenti attraverso la storia che si indirizzano o focalizzano a uno o ad alcuni aspetti dell’oppressione. L’anarco-primitivismo in questo senso allarga il punto di vista. La maggior parte di questi movimenti, in tutte le sfumature, l’anarchia, il socialismo, il comunismo, l’anticolonialismo, si sono concentrati sull’oppressione da un punto di vista antropocentrico. Inavvertitamente sono caduti nel meccanismo economico che assicura la proliferazione della sua civiltà e la sua espansione. L’anarco-primitivismo rimpicciolisce questo egoismo umano, l’egoitismo e l’antropocentrismo, come punti per analizzare – se la vita sulla terra esiste da milioni di anni quali sono i principi, e quindi le virtù di tale tipo di analisi o di questo ridotto modo di guardare, perdendo il terreno conosciuto o la posizione di supremazia. Perché, alla fine, ci si rende conto che la vita sa come proliferare e come bilanciare se stessa attraverso principi che governano un accesso anarchico uguale e libero alle energie, allo spazio. Il senso del tempo si interseca con questa proliferazione di diversità e di vita. Il senso dello spazio si interseca con questa coesistenza. Quindi non c’è posto per l’essere umano in cima a una piramide, che si designa come avente il diritto di consumare e distruggere e infine uccidere. Allora si osserva lo spazio e si guarda in che modo si organizzano le società e questo modo è il mutualismo. Allora il nostro posto diventa come contribuire alla proliferazione della diversità della vita. Infine, utilizzando questo set di strumenti d’analisi, che si ottiene dall’osservazione della natura o dello spazio selvaggio, si osservano le scelte culturali e storiche delle comunità, umane e non umane, e ci si rende conto che l’anarchismo può funzionare solo se cediamo questa supremazia estrema.
[…] C’è un altro mito che normalmente viene attribuito all’anarco-primitivismo ed è che si vuole tornare indietro al tempo delle caverne. Per quanto mi piacerebbe vivere in una grotta e io ho trovato veramente belle le grotte Olandesi in Crimea che ho visitato nel 2006. Il risultato della civilizzazione è stato un’incredibile crescita della popolazione. Non c’è modo di avere 7 miliardi di persone e farle marciare verso le caverne. Così, ovviamente, noi non possiamo tornare indietro a una situazione in cui c’era un numero di esseri umani sostenibile come lo eravamo 300.000 anni fa, o anche 10.000 anni fa, o anche all’inizio del 20° secolo. Non è quello che dicono gli anarco-primitivisti. Andiamo avanti con quello che abbiamo. L’andare avanti non è nascondere la testa sotto la sabbia e pretendere che le questioni dolorose non esistano perché creano disagio. Dobbiamo affrontarle. La prima questione chiara è che la strada che stiamo percorrendo è insostenibile prima di tutto per tutte le altre specie e senza le altre specie noi siamo condannati. Alla fine, il collasso colpirà tutti e, sfortunatamente, sarà una vera fine poiché coloro che occupano i posti più alti nella gerarchia potranno estendere la loro vita il più a lungo possibile, ma è impossibile sopravvivere su un pianeta che non ha acqua fresca e ossigeno. A meno che loro non pensino a qualche modo su come cambiare le basi della vita umana in questo pianeta, che è fantascientifico ed è ciò che non potrà accadere. Dunque, dove possiamo andare di fronte ai fatti così come sono. E di fronte al fatto che 7 miliardi che marciano verso le caverne non è sostenibile. Ma ovviamente noi non diremmo… peccato, quelli che non possono sopravvivere muoiano. Ovviamente no. Quindi iniziamo a sovvertire le nostre stesse relazioni senza che ci sia la nostra gerarchia con i non-umani in modo che questa controlli la nostra propensione a proliferare sotto la domesticazione. La nascita della popolazione umana è stata determinata dal fatto che era necessario che umani e non-umani addomesticati producessero risorse. Ad esempio, si possono confrontare i cani domestici e i lupi selvatici. Quanti cuccioli hanno i lupi selvatici e li hanno in determinate stagioni. Mantengono la crescita della popolazione a zero. Ed è per questo che vengono minacciati dall’espansione umana, perché meno prolifici, più vieni ucciso e meno sarai. La maggior parte dei cosiddetti predatori in natura si riproduce molto raramente. Ma gli umani, quando hanno preso la decisione di diventare predatori, hanno effettivamente cambiato il loro orologio biologico riproduttivo e hanno iniziato a chiedere sempre più risorse umane – quelli che avrebbero coltivato, quelli che avrebbero protetto e difeso, quindi i militari, ecc. Allora il passo per realizzare un’economia del lavoro selvaggio è riconvertire le nostre stesse relazioni con i nostri domesticatori e così la nostra propensione a riprodurci diminuirà, sollecitando a cedere quelle zone deserte che ha creato la civilizzazione umana, attraendo una maggiore diversità di vita e una condivisione. E con l’attrazione di queste diversità di vita, per esempio, invece che con il controllo di tutti i raccolti, del piantare alberi di mele e quindi averne di più, di avere allevamenti o dei contadini che lavorano per noi, di avere chi fa da sentinella e chi vende. Invece di usare questo sistema gerarchico di estrazione di monocoltura, se si permette a una diversità di piante di crescere in questo spazio, se si cede questo possesso del lavoro umano e della coltura, che rende le mele troppo care, si scoprirà che ci sarà più vita, una maggiore varietà di coltivazioni e meno bisogno di avere esseri umani che si sfruttano gli uni con gli altri in guerre o altro. Dunque, la strada per il futuro dipende dal modo in cui siamo disposti a vivere veramente. E se vogliamo vivere allora noi dobbiamo imparare come la vita prolifera e vive e gioisce in questa diversità.”

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